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Le comproprietà nei club di Serie A e B

Scritto da Redazione

Impatto economico della comproprietà sui club di Serie A e Serie B

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Ah, la comproprietà. Se hai seguito il calcio italiano per un po’, questa parola ti suonerà come un vecchio ritornello, un po’ nostalgico, un po’ complicato. Per anni, è stata la regina indiscussa del calciomercato nostrano, un meccanismo tanto affascinante quanto, a volte, cervellotico. Un’epoca di “metà cartellini”, di trattative infinite che si risolvevano sul filo di lana, spesso con il famigerato sistema delle “buste”. C’era chi la amava, chi la odiava, ma una cosa è certa: ha lasciato un segno profondo.

Il calciomercato italiano, un tempo, era un intrigo di formule che nemmeno i migliori analisti di CasinoVeri.it avrebbero saputo decifrare con certezza, e al centro di questo labirinto c’era spesso lei. Anche se oggi non esiste più, abolita per far spazio a un sistema (forse) più trasparente, l’eco del suo impatto economico sui bilanci e sulle strategie dei club di Serie A e Serie B si sente ancora. Capire cosa è stata e come ha funzionato è un po’ come fare un’autopsia a un pezzo di storia del nostro calcio.

Il sistema delle comproprietà nel calcio italiano

Ma cos’era questa comproprietà? In pratica, il “cartellino” di un giocatore (i diritti sportivi) veniva diviso 50/50 tra due società. Come comprare una casa in due: entrambi investivano, condividendo rischi e potenziali benefici.

Il momento cruciale arrivava ogni anno, o al massimo due: i club decidevano il futuro del giocatore. O trovavano un accordo – uno vendeva la sua metà all’altro, o cedevano entrambi a un terzo club dividendosi il ricavato – oppure, senza intesa, si ricorreva alle “buste chiuse”. Ognuno offriva in segreto una cifra per l’altra metà; chi puntava di più, si aggiudicava l’intero cartellino. Un vero poker, spesso ricco di sorprese.

Questo sistema, tipicamente italiano e visto con curiosità mista a sospetto all’estero, fu abolito dalla stagione 2014-2015. Tra le motivazioni: la spinta FIFA per più trasparenza e meno influenze di “terze parti” sui trasferimenti, e la volontà di semplificare un mercato divenuto un rompicapo per addetti ai lavori e tifosi.

Le spinte economiche dietro la comproprietà

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Perché i club italiani amavano tanto questo meccanismo? Semplice: per forti motivazioni economiche e strategiche.

Prima di tutto, la condivisione del rischio: acquistare un giovane promettente è una scommessa; in comproprietà, l’investimento iniziale si dimezzava. Fenomeno? Affare a metà. Bidone? Perdita dimezzata. Logico.

Poi, il flusso di cassa: per i club con meno liquidità, comprare “mezzo” giocatore significava un esborso minore, permettendo di acquisire più talenti o un giocatore altrimenti fuori portata. La comproprietà nel calcio aiutava a fare mercato con budget ridotti.

Non da meno, le plusvalenze: usata con astuzia, la comproprietà poteva “gonfiare” i bilanci tramite scambi di metà cartellini e valutazioni generose, un aspetto controverso. Infine, creava alleanze strategiche tra club, con scambi e aiuti reciproci, permettendo ai piccoli di appoggiarsi ai grandi e a questi ultimi di “parcheggiare” giovani.

L’impatto sui club di Serie A

Per i club della massima serie, la comproprietà è stata un’arma a doppio taglio, con implicazioni economiche notevoli. Da un lato, come detto, permetteva di spalmare gli investimenti e i rischi su più giocatori o di acquisire talenti emergenti senza svenarsi subito. Immagina una big che adocchia un giovane di belle speranze in una provinciale: invece di strapagarlo, ne prende la metà, lo lascia crescere lì o lo porta in rosa a costi contenuti, e poi valuta. Un modo intelligente per gestire il portafoglio giocatori.

La comproprietà calcio era anche uno strumento per generare quelle famose plusvalenze, vitali per i bilanci di molti club di Serie A. Attraverso la cessione di metà cartellini, o con la risoluzione delle comproprietà a cifre superiori a quelle di carico, si potevano far quadrare i conti, almeno sulla carta. Un sistema che, però, a lungo andare ha mostrato le sue crepe, portando a valutazioni a volte poco realistiche e a un sistema finanziario del calcio un po’ drogato.

D’altro canto, la gestione di un parco giocatori con molte comproprietà era un incubo logistico e strategico. Decine di situazioni da risolvere ogni estate, trattative incrociate, il rischio di perdere un giocatore chiave alle buste per un’offerta superiore del partner. E poi, c’era la questione della programmazione tecnica: difficile costruire un progetto a lungo termine se metà della tua potenziale squadra è in bilico ogni anno. Economicamente, significava anche immobilizzare capitali su “mezzi giocatori”, risorse che forse potevano essere investite diversamente.

L’impatto sui club di Serie B

Se per la Serie A la comproprietà era uno strumento complesso, per molti club di Serie B (e Lega Pro) fu spesso un’ancora di salvezza economica e tecnica. Con budget risicati e l’esigenza di rose competitive, ottenere giocatori di qualità da club di Serie A in comproprietà era preziosissimo.

Giovani talenti delle grandi squadre venivano “parcheggiati” in B con questa formula: il club di A manteneva metà controllo sul futuro del giocatore, mentre il club di B ne godeva le prestazioni, spesso contribuendo poco all’ingaggio o ricevendolo a costo zero. Un enorme vantaggio tecnico.

Economicamente, per i club di B, la comproprietà poteva essere una fonte di ricavo cruciale. Se un giovane esplodeva, alla risoluzione (spesso a favore del club di A), la società cadetta incassava una cifra importante per la sua metà, ossigeno per le casse. Questo permetteva di reinvestire, migliorare strutture e sopravvivere.

Certo, c’erano i contro. La dipendenza dai club di Serie A era forte: se la società maggiore si riprendeva il giocatore o lo cedeva, il club di B restava a mani vuote, dovendo ripartire. La programmazione era difficile, con rose variabili in base alle strategie delle “sorelle maggiori”. Inoltre, il club di B non sempre aveva forza contrattuale per ottenere condizioni vantaggiose, finendo per valorizzare giocatori senza adeguato ritorno. Nonostante ciò, per anni, la linfa vitale di molte squadre di Serie B è derivata da queste dinamiche, un sistema imperfetto ma spesso necessario alla loro sussistenza.

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